Discutere
Le città cartolina
Cosa succede quando le città si identificano con la propria immagine? Qual è il rapporto tra lo sguardo del turista e quello del cittadino? Cosa può fare la politica per non trasfigurare questo rapporto? Ne abbiamo parlato con Richard Ingersoll, professore di architettura e urbanistica.
Professor Ingersoll, nel suo libro lei introduce la categoria di “città-cartolina”, che in estrema sintesi descrive la tendenza delle città a identificarsi con la propria immagine. Questa tendenza si rende particolarmente visibile in città come Venezia e Firenze, dove la vita quotidiana è fortemente condizionata dal turismo di massa, ma le città medie – lei dice – non ne sono immuni. Ci può spiegare il perché?
Certo, la mia sensazione è che mentre gli effetti del turismo di massa riducono città come Venezia o Firenze a una serie di rappresentazioni, nella società consumistica si diffonde la tendenza a trattare gli abitanti di qualsiasi città come turisti. Il turista è il cittadino ideale delle politiche neoliberiste: non appartiene al luogo, ma vi partecipa essenzialmente con i consumi. Il turista è per definizione alienato dal contesto politico: è docile, prevedibile, pagante. Il cittadino invece costa, rappresenta un costo in termini economici e di consenso. Anche a Modena, per esempio, i grandi centri commerciali e l’enfasi sulla Città dei motori sono scelte che hanno poco a che fare con lo sviluppo reale delle persone. L’enfasi sui motori, poi, mi sembra la prova di quanto la vostra città non sia estranea ai processi di cui stiamo parlando: il cittadino-turista si muove in un nuovo rapporto tra il centro e la periferia e lo fa perlopiù in automobile. Il centro storico e i quartieri non vivono più le molteplici funzioni di un tempo ed è esattamente questa traformazione che ho tentato di definire con la parola “sprawl”: le funzioni più elitarie rimangono in centro, dove però abitano gli immigrati, mentre la classe media costruisce dei ghetti in perfieria dove tutto è monofunzionale: l’ipermercato, lo sport, le abitazioni. E in una città di questo tipo andare al lavoro, fare la spesa o portare i figli a scuola significa per forza usare l’automobile. Abbiamo già visto dove porta questo processo, abbiamo sotto gli occhi quali sono i problemi che ha prodotto in Australia e negli Stati Uniti, ma la politica non sembra disposta a farne tesoro. Costruire sul costruito è uno slogan vecchio di 30 anni, eppure le amministrazioni continuano a occupare nuovi terreni.
La politica quindi può fare qualcosa.
Certo, il personaggio-chiave dell’intero processo è ancora l’amministratore: a Friburgo, per esempio, se vivi in una casa senza automobili paghi meno tasse. Bisogna però dire che l’abolizione dell’Ici, in Italia, ha fortemente danneggiato la possibilità di intervento economico e culturale degli amministratori. L’Ici era una tassa realmente democratica e dove andavano a finire quei soldi lo vedevi. Ma anche senza l’Ici l’assessore ha ancora un’arma: può difendere o ripristinare gli aspetti di partecipazione e i momenti di discussione pubblica che invertono la tendenza in corso. Oppure può decidere di assecondarla, ma in questo modo starà prostituendo la propria città.
Per cui lei esclude che tra il mandato di potenziare l’immagine della città e i meccanismi di partecipazione si possa stabilire un rapporto virtuoso?
No, non lo escludo, ma più le città vengono concepite come una serie di immagini ed esperienze da consumare, più si rischia di compromettere il delicato equilibrio tra libertà di associazione e libertà di acquisto. Nel momento in cui i cittadini vengono sostituiti dai turisti, molte città si sforzano di riprodurre o di proteggere le forme di una sfera pubblica, ma senza difendere gli aspetti di partecipazione politica che un tempo queste contenevano.
Sta per caso pensando ai festival? Come si inseriscono gli eventi culturali in questo processo degenerativo? Lo invertono o lo alimentano?
I cittadini devono avere la sensazione che la loro cultura ha a che fare con la ruota della cultura nazionale e internazionale: a questo servono gli eventi. Ma il rapporto tra eventi e servizi deve essere circolare, perché altrimenti lo spazio pubblico si trasforma in una fiera delle vanità. L’unico turismo intelligente, da questo punto di vista, è quello prodotto da società che fanno qualcosa per se stesse, mentre anche il turismo culturale, quando non è animato da questa priorità, è sempre distruttivo. Farò tre esempi, su scale diverse. Il primo è quello del mercato di Montevarchi, un piccolo esperimento di agricoltura a chilometro zero che nel giro di pochi anni è diventato una meta di forte richiamo turistico. Il secondo è quello della Compagnia della Fortezza di Volterra o degli spettacoli di Pippo Delbono: li definirei rappresentanti di una cultura che mette al primo posto le comunità che la producono e, proprio per questo, si rivela fortemente attrattiva. Il terzo esempio invece è quello del museo di Bilbao, che risponde direttamente al mandato neoliberista di ridurre l’identità di un luogo a un’immagine commerciale, subordinando la produzione di cultura al consumo di massa: un grandissimo investimento di pochissima durata, dove oramai non va quasi più nessuno.
La città felice, quindi, sarebbe quella che non consuma più di quello che produce, come lei ha scritto nel suo libro.
Con il mio libro volevo rivolgermi innanzitutto agli amministratori: la sfida del libro era quella di tornare a porre in rapporto i valori civici con le trasformazioni urbane. Adesso si usa la parola “sprawl” perché va di moda, l’ho sentita adoperare addirittura per giustificare alcune scelte che rappresentavano esattamente l’obiettivo polemico del libro. Ma il punto non è giustificare o criticare lo “sprawl”: il punto è governarne le tendenze più distruttive. Bisogna inventare nuove forme di produzione che fanno sopravvivere il cittadino, che non lo fanno diventare un turista. E bisogna finanziarle, queste nuove forme.